Al teatro India, dal 4 al 9 ottobre, è di scena la compagnia teatrale diretta da Pierpaolo Sepe e composta da Gabriele Colferai, Dacia D’Acunto, Gabriele Guerra, Morena Rastelli nella rappresentazione di Crave ,il, penultimo testo di Sarah Kane, drammaturga inglese, che con una manciata di opere ha conquistato la critica mondiale ed e’ poi morta suicida, durante l’esperienza in manicomio.
Questo dramma è un ritratto psicologico che si snoda nei dialoghi di quattro personaggi: A (author, abusator, actor), un uomo anziano che ha una storia morbosa e violenta con C (child), appena adolescente, che non sopporta di amare quell’uomo; M (mother), una donna sulla via della vecchiaia che vuole un figlio per non restare sola, ma lo vuole senza amore, da B (boy), un ragazzo che la rifiuterà in modo umiliante.
Dal principio alla fine del testo, c’è un continuo avvicendarsi di dialoghi spezzati e frammentati che creano un mosaico coloratissimo e pieno di sfumature disomogenee, raffiguranti la disperazione che regna nell’animo dell’autrice.
E’ un testo che lascia moltissima libertà di interpretazione per i quattro attori e, soprattutto, per il regista; nel testo della Kane, infatti, la punteggiatura diventa pressoché assente e, ad un certo punto, anche la caratterizzazione dei singoli personaggi si perde completamente.
In compenso però, c’è la poesia che vive in ogni frase di questa tragedia e che riesce a far trasparire non solo i sentimenti di una donna estremamente disturbata, ma anche le tracce di un vissuto pieno di tenerezze e di amori mancati.
In un contesto del genere, la regia rappresenta il punto cardine di tutto lo spettacolo, poiché se è vero che il testo non detta in modo diretto delle linee guida espressive e interpretative, risulta chiaro che sarà il regista a scegliere un modo coerente e convincente per far si che queste quattro voci possano esprimersi e raccontare la loro storia.
A tal proposito, c’è da fare un plauso a Pierpaolo Sepe per il suo coraggio nella volontà di estremizzare al massimo tutte le possibilità espressive in scena.
C’è un lavoro di ricerca sui rumori ambientali e del calpestio, che diventano un tutt’uno con la straordinaria colonna sonora e si incastrano con la scenografia di Francesco Ghisu; la ricostruzione di una gabbia o di una cella, che è poi evocazione dell’ospedale psichiatrico in cui Sarah Kane fu internata .
Ci sono citazioni al teatro sperimentale in cui la mimica, curata da Chiara Orefice nei movimenti di scena, le urla e l’esposizione del corpo completamente nudo diventano racconto, grazie anche alla fotografia di Cesare Accetta.
In scena sono usati dei microfoni,
su tutto il perimetro della scenografia per catturare le voci e renderle piene di eco ed effetti ipnotici.
Notevole, la maestria e la forza interpretativa dei quattro attori, che sembrano impastarsi con la scena ed i suoni e recitano con ogni parte del loro corpo, giocando anche a scambiarsi i costumi,essenziali ma efficaci di Annapaola Brancia d’Apricena, e sperimentano ogni tipo di registro vocale.
Impressiona e colpisce la capacità di esprimersi in modo corale, come se a parlare fosse una stessa entità che pero’ mantiene identità distinte.
L’unico aspetto che lascia un po’ perplessi riguarda la fruibilità di un adattamento così estremo e criptico: vi sono momenti in cui, forse, la recitazione pura viene quasi sopraffatta da una quantità estesa di effetti sonori, visivi e dai manierismi in stile teatro off.
In ogni caso complesso, questo adattamento di Crave merita di essere vissuto più che guardato e l’impatto emotivo che ne consegue sarà certamente motivo di riflessione.
Alessandro Gilardi.