Un monologo terribilmente complesso, breve e impegnativo davanti a un povero spettatore ignaro. Il bravissimo Corrado d’Elia, sia attore che regista dello spettacolo, riprende il celebre romanzo picaresco di Cervantes, Don Chisciotte, uno dei progenitori del romanzo moderno.
Le gesta dell’eroico cavaliere della Mancha rivivono attraverso la sua voce, nell’intima cornice del teatro Belli. L’attore-regista, dalla propria scrivania che ricorda la fusoliera di un aereo, alterna la lettura di brani del romanzo di Cervantes a citazioni di altri autori e a riflessioni personali, quasi a ricordare che volare alto non solo si può ma si deve, se non si vuole tradire la propria natura di essere umano nato per desiderare, ovvero sentire la mancanza delle stelle e mettersi in cammino per raggiungerle.
Ben lontano quindi dall’essere una trasposizione del capolavoro di Cervantes, che è, invece, semplicemente un pretesto, una cornice narrativa evocata a più riprese per parafrasare una condizione sia personale che sociale di una nuova forma di cavaliere: l’attore del teatro. Tra richiami di utopia cavalleresca e commenti sulla cruda realtà contemporanea, si confrontano nuove e vecchie tipologie di idee, modi di affrontare la vita, ma l’occhio di chi narra non è interessato al crudo realismo e consumismo contemporaneo, ma osserva tutto con l’animo del cavaliere di altri tempi, un uomo considerato già passato dai suoi contemporanei del passato. In fondo, la pazzia è un modo di vedere il mondo con occhi diversi, non contaminati dai condizionamenti sociali, ed è proprio questa pazzia che accomuna il cavaliere ad un attore di teatro, che non naviga sicuramente nell’oro, ma fin da piccolo sogna, poi agogna e ora si gongola al piacere della recitazione senza doppi fini, vivendo nell’incertezza con l’unica prospettiva del palco, della finzione, della possibilità di perdersi in esso, senza tempo e ragione. Tra realtà e finzione, una dedica a coloro che ancora credono nell’amore e nei sogni, ai visionari e alle nuove idee, ai perdenti che capiscono dai propri errori rialzandosi e continuando.
Un’interpretazione personale del romanzo, dunque, che lascia decisamente poco spazio al lato umoristico del personaggio donchisciottesco, specchio di una figura ormai lontana dalla cattolica Spagna in cui la classe media cominciava ad emergere, cercandosi spazi e consensi dall’aristocrazia e cercando quindi di sorpassare un obsoleto concetto di romanzo cavalleresco classicamente medioevale. Le musiche soft di sottofondo enfatizzano ancor più la musicalità del caldo parlare dell’attore, seduto su un piblano bianco, sotto un cielo finto fatto da pagine strappate penzolanti.
Lo scroscio d’applausi finali se l’è meritato tutto, per la sua interpretazione, per il breve spettacolo, per la voglia di continuare il suo sogno sul palco.
In scena al Teatro Belli di Roma fino al 13 maggio.
Marco Lelli