Ippolito di Euripide @ Teatro Sala Uno – Roma

Amore, morte e virtù: l’“Ippolito” torna al Sala Uno.

Roma, 31 Gen – Al Sala Uno si muore d’amore. O meglio, si muore a causa dell’Amore. Un amore spietato, che, come una matrigna, non esita ad allontanare da sé i figli più ribelli e presuntuosi e ad affidarli alla buia notte perpetua dell’Ade. Un amore che, come una divinità, si fa beffe di quei piccoli e goffi uomini che risalgono i cieli librandosi sulle ingannevoli ali di Icaro della superbia. Un amore che vuole solo sentirli cadere a terra e che il tonfo sia il più fragoroso possibile. Questo desiderio di vendetta e di distruzione apre l’Ippolito di Marco Blanchi, in scena al Sala Uno di Roma dal 31 gennaio al 5 febbraio. Il monologo di Afrodite, in consonanza con l’originale euripideo, ha la funzione di mettere subito in tavola le carte principali della vicenda: l’ansia di verticalità che spinge gli uomini a rivaleggiare in virtù con gli dei e la vendetta divina portatrice soltanto di morte e rovina. Così, un animo puro come quello di Ippolito, figlio di Teseo e della regina delle amazzoni, si trova a pagare le conseguenze della sua cieca scelta incondizionata della virtù ad ogni costo. In modo irreprensibile, egli dimostra di scegliere sempre la luce degli dei, onorandoli come si deve, e, allo stesso tempo, si mostra anche deciso a fuggire tutte quelle passioni che hanno bisogno della notte per sfogarsi. Seguendo questa convinzione, dunque, il giovane sceglie una vita di verginità. Il suo preservarsi casto, però, suona come un’offesa alle orecchie della dea Afrodite, che scorge in questo atteggiamento la tracotanza di chi vuol competere con le decisioni di un dio. Così, decide di far innamorare di Ippolito Fedra, la moglie di Teseo, innescando una crudele spirale di morte e di dolore. Il copione di Blanchi resta sempre molto aderente al testo di Euripide e mira a ricreare quell’aria carica di pathos tipica della tragedia greca. Come l’originale, poi, si apre con il monologo di Afrodite, ottimamente interpretata da un’eccellente Rebecca Valenti e si chiude con l’intervento ex machina di Artemide (Valeria Longo) che ricorda a Teseo di che grave delitto si è macchiato. Un ulteriore elemento di consonanza profonda con la struttura della tragedia greca è la grande importanza accordata al coro, composto da sette personaggi, e alla corifea. Il vero punto di forza di questa pièce è la messa in scena, che, già dalla scenografia – un palcoscenico utilizzato come circolare con al centro un “altare” – mira a trascinare lo spettatore nelle atmosfere di un teatro di oltre duemila anni fa. Un elemento da rimarcare in senso assolutamente positivo sono le coreografie molto curate e suggestive che accompagnano le musiche originali di Alberto Maria del Re. A dominare la scena è l’elemento coloristico dei costumi che, con il blu degli abiti e il rosso dei mantelli, creano delle figure davvero suggestive e ben riuscite. In un contesto così suggestivo, però, dispiace dirlo, si nota ancora di più l’abbigliamento inconsueto di un Teseo che sembra provenire da altre coordinate spaziotemporali. Questo però è l’unico neo di una rappresentazione in generale molto azzeccata, interpretata in modo magistrale da Siddharta Prestinari e da Ivan Ristallo, abilissimi nel trasmettere il pathos dei loro disperati personaggi, grandi nella sventura come nella virtù. E proprio con il trionfo della Virtù si chiude questa pièce. Come già in Euripide, si ricorda che, nonostante il dolore e “il grande schianto di lacrime”, “la memoria dei grandi persiste”.

Davide Coccia