Il 15 aprile, al Teatro Quirino è stato presentato il terzo appuntamento dedicato a Saverio La Ruina con l’intenso monologo La Borto, che chiude la rassegna dedicata all’artista.
Scritto dal drammaturgo nel 2009 La Borto vede La Ruina impegnato ad interpretare Vittoria una donna calabrese, che ripercorre la propria esistenza in una sorta di fittizio dialogo con Gesù ed i suoi apostoli, in uno scenario ispirato all’ultima cena.
Accusata d’esser come Giuda da Cristo, Vittoria rigetta tale definizione poiché non ha mai compiuto malvagità e narra ai suoi interlocutori- sono un’apparizione o una sua proiezione?- il proprio passato: sposa bambina letteralmente ceduta ad un uomo molto più grande di lei, madre di sette figli, in un paesino dove impera una mentalità maschilista e retrograda nel quale le femmine sono destinate a sottostare alla volontà dell’uomo, sia egli padre, patrigno o coniuge.
Sarà, appunto, il patrigno della ragazzina a decidere di darla in sposa ad un individuo storpio e sgraziato, facendole scoprire l’aspetto solo nel giorno delle nozze per impedirle di rifiutarlo.
Tuttavia Vittoria, nonostate un iniziale sbigottimento sull’altare, lo sposa perchè intravede nei suoi occhi una fragile umanità, che purtroppo si muterà in grettezza e insensibilità nei suoi confronti col tempo.
Solo nelle altre donne del paesino ella trova solidarietà e supporto, in quanto tutte accomunate
dall’atteggiamento dei propri consorti, prede degli istinti carnali ed assenti nel momento del bisogno come durante le loro molteplici gravidanze.
Ed è qui che si apre la parte fondamentale dell’opera: la protagonista e le sue compagne di sventura tentano costantemente di non avere altri figli attraverso i modi più disparati; alcuni comici come la preparazione nottura di miriadi di corredi e le preghiere a tutti i santi della chiesa, con tanto di ritorsione contro le statue sacre quando si ritroveranno nuovamente incinte; altri drammaticamente noti, come i tentativi d’aborto domestici o l’intervento delle mammane, ovvero anziane senza preparazione medica che praticavano discutibili interruzioni di gravidanza con strumenti d’uso domestico, quali spilloni o grucce, causando spesso la morte delle puerpere o danni alla loro salute.
Solo con l’introduzione legale dell’aborto assistito nella sanità pubblica, tali figure sono quasi svanite dalle comunità rurali e metropolitane lasciando un segno indelebile nell’immaginario collettivo specialement femminile.
Vittoria ha già partorito sette figli dai 15 ai 28 anni, quando decide di abortire con l’aiuto di una mammana; è stremata dalla numerosa prole cui bada e vive in povertà, mentre il marito le dichiara per l’ennessima volta che dovrà arrangiarsi da sola.
La sua è una scelta colma di timore e sofferenza, poiché ha visto le conseguenze delle interruzioni praticate tra e mura domestiche sulle sue amiche, però è risoluta nel non voler avere altri figli anche a costo di rimetterci la vita.
Lo sguardo disapprovante di Gesù ed i suoi apostoli si muta lentamente, durante il suo racconto, in una consapevole empatia verso di lei e la sua decisione.
La Ruina recita il lungo monologo nei panni della protagonista con una fluidità spiazzante, facendo sorridere lo spettatore nei momenti più coloriti per poi condurlo nell’aspra drammaticità della condizione femminile in Italia, fino alle lotte femministe che porteranno all’introduzione dell’aborto e del divorzio.
La desolante solitudine sociale di Vittoria e le sue compaesane non è stato esclusivo appannaggio dell’arcaico contesto rurale calabrese, e meridionale in genere, ma unisce il Belpaese da Trieste in giù e La Ruina ce lo rammenta creando un personaggio femminile straordinario nella sua apparente semplicità: Vittoria è intelligente, sensibile quanto pragmatica, non si vittimizza ma appare consapevole di tutte le difficoltà ed il dolore affrontati e lotta affinchè le nuove generazioni femminili non debbano vivere tali situazioni.
La potenza de La Borto sta nella volontà dell’attore/drammaturgo d’interpretare una donna per scatenare un processo di comprensione ed immedesimazione nel pubblico maschile, quasi volesse sentire attraverso il suo personaggio la sofferenza insita nell’esser femmina.
E lo fa grazie ad una scrittura intensa, priva di pateticismo quanto secca e capace anche di leggerezza soprattutto nella prima parte.
Poi non v’è più spazio per l’ironia, poiché l’orrore quotidiano prende il sopravvento lasciando spazio alla riflessione che uno spettacolo del genere riesce a porre in noi spettatori.
Roberto Cesano