Ascanio Celestini apre la stagione teatrale del Teatro Vittoria di Roma con tre spettacoli di grande attualità, in cui affronta temi difficili e delicati, come sempre in modo sagace e brillante, utilizzando la sua amara ironia nel sottolineare la tragicità delle vicende che sottopone al pubblico.
Il primo dei tre spettacoli è Pro patria. Senza prigioni, senza processi, scritto in occasione del 150° dell’Unità di Italia. Già l’uso della minuscola del titolo ci preannuncia il messaggio che l’autore romano intende farci arrivare, quello di un’Italia piccola e poco coerente, schiava di ogni potere forte, presa da piccole battaglie interne, incapace di affermare una propria indipendenza di idee e sempre pronta a seguire il più forte, senza coscienza dei corsi e ricorsi storici che inevitabilmente la smentiscono. E per illustrare tutto questo nel suo modo magistrale, Ascanio Celestini si trasforma in un carcerato, un senzanome costretto in una cella di due metri per due, senza più dignità umana e senza identità, perché un detenuto è il reato che ha commesso, simbolo di intere generazioni di rivoluzionari che hanno tentato di costruire la nostra libertà e, allo stesso tempo, un uomo che non ha più nulla da perdere e ha per questo il coraggio di guardare in faccia alla realtà.
Il concetto di controvertigine è al centro della riflessione e rappresenta quella spinta inconscia che fa desiderare di lanciarsi nel vuoto quando ci s’affaccia da una grande altezza. Una voglia di sperimentare l’ignoto, di volare, ma anche, banalmente e crudelmente, il desiderio di suicidarsi quando troppo s’è tentato e nulla è stato come si sperava, o quando l’esperienza del carcere è così atroce da preferire la morte.
Il pretesto è la preparazione di un discorso, e l’immaginario interlocutore con cui il grande autore costruisce il canovaccio è Giuseppe Mazzini, che rappresenta per tanti l’ideale tradito, il paradosso della costruzione dell’Italia unita.
Ascanio Celestini sceglie ancora il monologo, alle spalle una scenografia composta solo da un pannello con manifesti del discorso che sta preparando e che rappresenta l’ammissione di fallimento del progetto Italia.
Lo spunto iniziale è la grande avventura del 3 luglio 1849, con il suo carico di aspettative e di animi infiammati, e Ascanio Celestini si fa portavoce, complice la diffusa ignoranza sugli anni di Mazzini, dei fatti eroici della brevissima esperienza della Repubblica Romana, che voleva governare senza prigioni e senza processi, dirigendo così il discorso come vuole, saltando continuamente dall’Italia di ieri a quella di oggi e conducendo il pubblico alla dolorosa conclusione. Da qui è bravissimo ad attraversare la storia dell’Unità d’Italia, la Resistenza del secondo dopoguerra fino ad arrivare all’attuale risorgimento, in guerra senza neanche saperlo, con il terrorismo e con il potere costituito, a domandarsi se tra qualche anno anche ai terroristi degli anni settanta saranno dedicate strade e piazze in una ironica tragedia di incomprensioni e capovolgimenti. Non uno ma tre risorgimenti, espressioni di un’idea intimamente legata alla lotta armata di classe: lo scontro tra repubblicani e monarchici nella seconda metà dell’800, la resistenza antifascista e il terrorismo rosso degli anni ’70.
Tutti e tre hanno caratteristiche comuni: sono stati fatti dai figli e traditi dai padri – e così è stato per generazioni, finché i vecchi anarchici ed i vecchi rivoluzionari non si sono fatti ingannare dal potere, che intende rendere l’intero Paese un immenso, unico carcere.
Ma non manca una riflessione sulla condizione delle carceri oggi: sovraffollate, invivibili, che non rieducano i condannati come dovrebbero, per cui questi ultimi si uccidono nell’indifferenza generale, poiché sono tanti ma, per lo Stato, non valgono niente
Ascanio Celestini è graffiante e arrabbiato, ironico e incisivo, pragmatico ma poetico, con un testo che per qualcuno potrà sembrare una retorica un po’ qualunquista, ma che è lucida e amara descrizione della realtà del nostro paese.
Un monologo intenso e denso, in cui si intrecciano personaggi come Carlo Pisacane, Goffredo Mameli, ma anche il padre dell’autore, sempre presente e protagonista, orgoglioso riparatore di mobili, che era costretto ad entrare dalla porta di servizio dei ricchi clienti.
Il pubblico è sempre attento e concentrato sugli articolati percorsi tipici di Ascanio Celestini, anche se in questo caso le risate arrivano più timide del solito, pochi sono infatti i momenti in cui ci si può permettere di sorridere e sentirsi rassicurati. Il protagonista conferma ancora una volta la sua bravura nel guidare gli spettatori attraverso il suo monologo di 100 minuti: un ininterrotto flusso di riflessioni, ricordi, interrogativi, resoconti. Un affabulare che unisce narrazione, interpretazione e dialogo.
Pro Patria è una pièce che regala sorrisi un po’ amari e tanta commozione, un testo complesso, col quale si può essere non completamente in sintonia, ma che smuove nel profondo la nostra coscienza, fino alla domanda finale: quando la rivoluzione finisce, cosa si può fare?
Da non perdere in scena fino a domenica 14 ottobre al teatro Vittoria.