New York, 1968, Michael è impegnato nella febbrile preparazione del party perfetto nel suo appartamento, per il compleanno dell’amico Harold, quando riceve la visita del prestante Donald appena bidonato dal suo psicologo.
Michael e Donald sono profondamente legati: si punzecchiano e si conoscono intimamente, tanto da apparire quasi come una coppia di lunga data. Si sono incontrati, per caso ,molti anni prima ed hanno fatto sesso qualche volta, ma sono poi divenuti ottimi amici e si sostengono reciprocamente nelle difficoltà.
Michael è uno sceneggiatore disoccupato, che vive al di sopra delle proprie possibilità ed ha accumulato un’enorme quantità di debiti; Donald soffre di depressione e si sente votato al fallimento, a causa delle sue ingombranti figure genitoriali.
Pian piano, giungono gli invitati: il frizzante Emory, per nulla a disagio con l’omosessualità, Hank e Larry, coppia in crisi per le remore del primo ad accettare la propria sessualità e per le scappatelle dell’altro, e il bel Bernard, costantemente bersaglio delle battutine di Emory riguardo il suo esser afroamericano; tutti in attesa del festeggiato, che giungerà solo dopo l’improvvisa comparsata di Alan McCarthy, il distinto ed eterosessuale ex compagno di stanza al college di Michael. a NY per un viaggio d’affari.
Negli Usa degli anni ’60, come avrebbe potuto reagire un borghese avvocato alla vista di un gruppo di scatenati gay, al riparo dalla violenza del mondo esterno tra le quattro mura dell’appartamento di Michael? Per quale motivo s’è presentato a casa del vecchio amico?
The boys in the band è un’opera che parla di solitudini; un’istantanea attendibile e dolente delle condizioni di vite e le sofferenze di un gruppo di diversi, avvicinatisi per necessità ma legati da vincoli affettivi profondi e sinceri.
Si sviluppa come una parabola discendente; un vero e proprio inferno da camera in cui le piccole e grandi tragedie dei personaggi sono svelate, senza pietismi od enfasi, con lo scopo di portare in scena un tema censuato da una viscida ed ingombrante omertà.
Quando il drammaturgo Matt Crowley scrisse il testo, non c’erano stati ancora i celebri moti di Stonewall, ovvero le proteste a New York che diedero avvio alla costituzione di un vero e proprio movimento di lotta per i diritti civili della comunità LGBTQ e il termine invertito era correntemente utilizzato per definire gli uomini gay, costretti a vivere all’ombra tra bar per soli uomini, battuage e perseguitati dalla polizia per atti osceni senza poter vivere serenamente la propria sessualità, come bersagli dello stigma sociale e religioso.
Crowley compie una scelta narrativa ben precisa: portare in scena personaggi umani e tridimensionali nella loro quotidianità, con lo scopo di mostrare al grande pubblico che gli omosessuali sono persone come le altre, con il loro bagaglio emotivo, le proprie gioie e dolori, ansie e sentimenti amorosi.
Oggi, nel XXI secolo, apparrebbe lapalissiano sottolineare ciò però non lo era assolutamente nel 1968, in cui la comunità LGBT era percepita come subumana e con di disagi psichici da correggere e curare.
L’elemento politico e sociale è, sapientemente, districato all’interno dei dialoghi tra i protagonisti in maniera naturale, privandolo dell’enfasi pietistica che spesso si riserva alle vittime della collettività, siano esse gay, donne o minoranze etniche; i personaggi sono pervasi di una vitale energia, come tremule ma vivide fiammelle nel buio.
Il dramma gioca costantemente col non detto, suggerisce senza mai rivelare lasciando allo spettatore una serie di suggestioni e curiosità: i reali sentimenti di Michael verso Donald; il rapporto tra lui ed Harold, l’unico che lo blandisce quando scatena una disperata perfidia, causata dall’alcool, attraverso un gioco di società crudele ed estenuante; il motivo dell’astio di Harold verso il bel Donald- sono stati amanti? Il festeggiato non vede di buon occhio l’amicizia tra lui ed il padrone di casa, conscio dell’amore non dichiarato di Michael per l’amico? Il motivo dell’apparizione di Alan e della sua agitazione.
L’inserimento di tali spunti, volutamente non sviluppati né chiariti, acuisce il realismo dell’opera, caratterizzata da dialoghi acuti e brillanti ed una dose alquanto elevata di sarcasmo, soprattutto nella seconda parte del testo e nel sottile e continuativo duello verbale tra il caustico Harold, ebreo dal viso butterato e dalla lingua tagliente, e Michael, cattolico praticante a modo suo, ubriaco e privo di freni inibitori riguardo l’aggressività verbale.
La confessione religiosa è volutamente sottolineata, per evidenziarne anche l’approccio molto differente alla questione sessuale: Harold come ebreo non soffre per la propria omosessualità, tutt’al più appare immalinconito dall’età che avanza e dalla pria mancata avvenenza fisica; Michael come contraltare è lacerato dalla propria natura, per quanto si sforzi di dimostrarsi brillante e a proprio agio. Saranno le omofobe parole di Alan contro Emory, a destabilizzarlo tanto da spingerlo a rompere il proposito di non bere alcolici, consapevole dell’effetto disastroso che la sbornia ha su di lui.
The boys in the band si distingue come opera per argutezza ed intelligenza, nel modo in cui affronta i temi trattati e nella costruzione dei personaggi.
L’adattamento italiano, curato da Costantino Della Gherardesca e diretto da Giorgio Bozzo spicca per la sua gradevolezza e per la fedeltà al testo originario, con un evidente riferimento visivo anche all’omonimo film di William Friedik, il regista de L’esorcista, diretto nel 1970 nella fisicità dei personaggi e nei loro look.
Ottime scenografie e luci, brani musicali assolutamente adatti, una buona regia che sa sfruttare i tempi del testo e che mostra grande amore verso esso.
A impreziosire lo spettacolo un buon cast: Paolo Garghentino è un ottimo Harold, misurato e magnetico al contempo, in grado di comunicare al pubblico tutto il fascino del suo enigmatico personaggio, Angelo Di Figlia infonde alla checca sfranta Emory una divertente umanità, calandosi con naturalezza nei panni sfaccettati del personaggio e particolarmente affiatato- come prevede il testo- con Alberto Malanchino- Bernard- . Samuele Cavallo recita il ruolo di Aaln McCarty con eleganza e convinzione.
Francesco Aricò, al contrario, interpreta in maniera poco incisiva Michael; pur avendo un’ottima mimica, stenta a portar in scena le sfumature del suo personaggio, a causa di un tono vocale monocorde e lievemente didascalico, quasi fosse ancora impegnato in una sorta di prova dello spettacolo stesso.
Si badi, Aricò non è un pessimo interprete, tuttavia non pare, perlomeno nella messa in scena di ieri sera, aver trovato la giusta chiave interpretativa di Michael, per restituirne la complessità caratteriale ed il mutamento umorale nell’arco della messa in scena. Solo nella parte finale, si dimostra convincente e contribuisce a regalare alla sala un ottimo finale.
The boys in the band è stato un atto di estremo coraggio da parte del suo autore, Matt Crowley, ed una pietra miliare del Teatro per gli argomenti trattati, in un momento storico in cui erano considerati un imbarazzante tabù per la società statunitense, e non solo.
Giorgio Bozzo ed il cast omaggiano il drammaturgo con un adattamento appassionato e piacevolissimo, in scena sino a domenica 1 maggio presso il Sala Umberto.
Roberto Cesano